Tra il ‘29 e il ‘33 Sassu dà vita a un ciclo di circa 500 opere: è la splendida stagione degli Uomini rossi, giocatori di dadi, musici, argonauti, cavalieri, dioscuri. Agli italiani degli anni Trenta, vestiti di orbace nero, Sassu racconta le storie di un altrove abitato da ragazzi, nudi perché fuori del tempo avvilente della storia. Uomini nuovi che protestano la loro alterità nel rosso che arde i loro corpi, riflesso di un tramonto sognato. Liberatori incerti, pronti eppure immoti, argonauti che studiano la rotta. In opposizione alla declamazione novecentista del mito di una nuova classicità, Sassu inventa l’ossimoro di una realtà mitica: non per raccontare a tutti il suo sogno, ma per raccontare il sogno di tutti, quella disperata “aspirazione all’epica” di una gioventù cresciuta sotto la dittatura. Mito è anche dare un volto al tuono, è la vita stessa chiamata a disegnare le sue storie sul vuoto della paura.